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La corona d’Avvento e il suo significato


Introduzione

L’Avvento, con le quattro settimane che precedono il Natale, è un momento particolare dell’anno non solamente per i cristiani, ma per tutto il mondo, quasi la festa della vita nuova.

Per noi cristiani è il periodo che:

ci fa riflettere sul mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, diventato Uomo per ridare     a ciascuno la sua alta dignità di figlio di Dio;

ci invita ad accogliere Gesù nel nostro cuore, nella nostra famiglia, nella nostra casa, mettendoci accanto a Maria, la Madre.

L’Avvento rappresenta, infatti, un periodo favorevole per dare spazio alla riflessione, per rafforzare i legami familiari stando insieme e anche con la preghiera fatta insieme.

La proposta è quella di realizzare la Corona di Avvento nella famiglia, per la famiglia.

Le tradizioni prevedono, lo sappiamo, per tutto il periodo natalizio una esplosione di decorazioni, di addobbi luminosi che creano una particolare atmosfera di festa e di luce. Perché, allora, non approfittare per vivere nella propria casa un momento di luce, di festa e di preghiera insieme,tutti quanti: papà, mamma, figli, nonni?

Pensiamo alla Corona di Avvento, una tradizione nata nei paesi Germanici e dell’America del nord e poi diffusasi anche nella nostra tradizione liturgica, come preparazione alla nascita di Gesù. Il simbolismo richiama la celebrazione di Cristo Luce del mondo, lo Sposo desiderato dalla Chiesa nella gioia dei suoi servi che lo attendono con le lampade accese.

Era una tradizione dal sapore tipicamente domestico, nata in famiglia come momento di preghiera e di richiesta di benedizione divina.

La riproponiamo come momento intimo da vivere nella propria casa,come crescita spirituale, scegliendo un posto dove collocarla, dove si vive di più insieme, nella sala da pranzo, vicino eventualmente a una icona della Vergine Maria, modello autentico dell’amore in famiglia.

La sua forma circolare richiama l’eternità di Dio che ama da sempre e per sempre e la centralità del Cristo; i rami verdi richiamano la speranza e la vita che non muore mai; i ceri richiamano la luce di Cristo.

Così si esprime il Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti (Congr. per il culto divino): “. La corona d’Avvento, con ilpro gressivo accendersi delle sue quattro luci, domenica dopo domenica, fino alla solennità del Natale, è memoria delle varie tappe della storia della salvezza prima di Cristo e simbolo della luce profetica che via via illuminava la notte fino al sorgere del sole di giustizia (cfr Mt 3, 20 ; Lc 1, 78) “.

Suggeriamo di prepararla in casa, con rami di abete o di pino sempreverde con le quattro candele, di cui tre di colore viola o rosso e una rosa per la terza settimana, o di altro colore o semplicemente bianche.

Ci si può riunire il sabato sera ola domenica, quando si sta tutti insieme.La mamma o il papà guidano la preghiera; l’accensione viene riservata a un figlio che partecipa alla preghiera.

DAI SERMONI DI S. ANTONIO

la cacciata dei cattivi dal regno e l’accoglienza dei buoni

“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, entrerà nel regno dei cieli (Mt 7,21).

Il Signore ha questo nome, in lat. Dominus, perché signoreggia, o domina su tutte le creature; o perché sta a capo della casa (in lat. domus, casa); o può voler dire anche dans minas, che dà (fa) minacce. La Glossa commenta così questo passo del vangelo: “Il cammino verso il regno di Dio consiste nell’obbedienza, e non nell’invo­ca­zione del suo nome; e neppure lo si invoca con sincerità e convinzione, quando la proclamazione del nome non concorda con la volontà; e infatti dice l’Apostolo: “Nessuno può dire: Signore Gesù, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3). Dire con sincerità: “Signore Gesù”, significa credere con il cuore, confessarlo con la bocca e testimoniarlo con le opere. Una cosa senza l’altra equivale a negare; infatti, per quante lodi faccia risuonare la lingua, la vita poi lo bestemmia. Gridano “Signore” coloro che non sono suoi servi, coloro che non temono le sue minacce.

Dice infatti il Signore stesso con le parole di Isaia: “Mi grida da Seir: Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte? Risponde il custode: Viene il mattino e poi verrà la notte; se volete cercare, cercate; convertitevi e venite!” (Is 21,11-12). Seir s’interpreta “ispido”, ed è figura del peccatore, oppresso dalle spine delle ricchezze e delle preoccupazioni. Perciò la Genesi dice che Esaù si stabilì nella terra di Seir, della regione di Edom (cf. Gn 36,8) E osserva che Esaù fu chiamato Seir e Edom: Seir perché peloso, Edom a motivo delle lenticchie rosse per le quali aveva venduto la primogenitura (cf. Gn 25,29). Esaù vuol dire anche “mucchio di pietre”, e Edom “sangue”. Dove c’è un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, lì ci sono anche le spine pungenti delle preoccupazioni e spargimento di sangue. Il peccatore dunque grida: “Custode, quanto resta della notte?”. Ecco qui “la ruota in mezzo ad un’altra ruota” (Ez 1,16; 10,10).

Nel vangelo di Matteo è detto due volte “Signore”, e in Isaia due volte “Custode”, per indicare che colui che è il Signore, è necessario che sia anche il Custode, per custo­dire perfettamente la casa della quale è a capo. Questo duplice nome di Signore comprende in sé il creatore e il giudice, e tra questi due estremi viene posto il centro, cioè il custode. Gesù Cristo nella creazione delle cose fu Signore, e sarà Signore anche nell’esame del severo giudizio perché sarà giudice e renderà a ciascuno ciò che è giusto. Però tra questi due momenti fu custode nella notte: il Signore assunse la condizione di servo per custodire i servi. Infatti leggiamo nel vangelo di Luca che “passava la notte in orazione” (Lc 6,12). Il custode della notte passava la notte in orazione, non per sé ma per la sua creatura, che era venuto a liberare.

Fu ancora custode della notte nella sua passione. Leggiamo sempre nel vangelo di Luca: “Gesù si allontanò da loro quanto il tiro di un sasso, e inginocchiatosi pregava” (Lc 22,41). Solo pregava per tutti, perché solo, per tutti avrebbe sofferto. Dice anche Ambrogio: “Patì per me, egli che in sé non aveva nulla per cui dovesse patire”. Si inginocchia per mostrare, con la posizione del corpo, l’umiltà dello spirito. Allora fu veramente umile e misericordioso, ma ritornerà severo e inesorabile per fare della terra un deserto e distruggere da essa i malvagi.

  E di questi malvagi egli si lamenta con le parole del profeta Osea: “Si sono rimpinzati, si sono saziati, il loro cuore si è inorgoglito e si sono dimenticati di me. Perciò sarò per loro come una leonessa, come un leopardo sulla via degli Assiri. Li assalirò come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli; dilanierò le loro interiora fino al fegato e come un leone li sbranerò. La belva del campo li dilanierà. Viene da te la tua rovina, o Israele: solo da me ti potrà venire l’aiuto” (Os 13,6-9). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza otto cose, e cioè quattro vizi e i loro quattro corrispondenti castighi: “si sono riempiti”, ecco le ricchezze e l’avari­zia; “si sono saziati”, ecco la gola; “il loro cuore si è inorgoglito”, ecco la superbia e la vanagloria; “si sono dimenticati di me”, ecco la lussuria.

Dice infatti Ezechiele: “Poiché mi hai dimenticato e mi hai gettato dietro al tuo corpo, anche tu porterai le tue scelleratezze e le tue fornicazioni” (Ez 23,35). Getta il Signore dietro al suo corpo colui che, dimentico dell’amara sua passione, si abbandona ai piaceri del corpo e per amore del suo corpo diventa schiavo della gola e del ventre. “Perciò” – dice il Signore – “sarò come una leonessa” contro quelli che si sono rimpinzati; “come un leopardo nella via degli Assiri, assalirò” quelli che si sono saziati; “come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli dilanierò fino al fegato le interiora” dei superbi, che si sono inorgogliti nel loro cuore. Amiamo con il fegato: in esso è simboleggiato l’amore alle cose terrene, e il Signore dilanierà le interiora di chi le ama. “E come un leone consumerò” i lussuriosi, “e la belva del campo”, che è il diavolo, “li strazierà con la spada della morte eterna, e così avranno come torturatore nella loro sofferenza colui che hanno ascoltato come istigatore nella colpa.

“La tua rovina viene da te stesso, o Israele”, come dicesse: Se sei andato in rovina, la colpa è tua. Ma il soccorso non ti potrà venire da nessun altro che da me, che custodisco Israele. Giustamente dunque è detto: “Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte?”. “E il custode risponde: Viene il mattino e poi verrà la notte. Se volete cercare, cercate. Convertitevi e venite”.

Custode deriva da cura; mattino, in lat. mane, dall’aggettivo manus, buono, perché gli antichi chiamavano la mano “un bene”; infatti che cosa c’è di meglio della luce (del mattino, mane)? Il Signore, nostro custode, che ha cura di noi (cf. 1Pt 5,7), a coloro che gridano: “Signore, Signore!”, dice: “Viene il mattino”, cioè la luce della grazia; camminate dunque finché è giorno, perché arriverà la notte nella quale non potrete più far niente. Se un albero, dice Salomone, cade rivolto a mezzogiorno, cioè alla vita, o se cade rivolto a settentrione, vale a dire alla morte, resta dove è caduto (cf. Eccle 11,3). Lavora dunque assiduamente finché è giorno, o peccatore, perché non c’è né azione né ragione in quell’inferno verso il quale ti stai affrettando, anzi ti stai lanciando con i tuoi peccati.

Se dunque vi proponete di cercare, cercate finché è giorno. E se cercate, che cosa vuol dire cercare? “Convertitevi – risponde – e venite”. Ecco come si cerca Dio e come lo si trova. Il Signore non si deve cercarlo gridando “Signore, Signore!”, perché egli cerca adoratori che lo adorino in spirito e verità (cf. Gv 4,23-24), cioè nello spirito della contrizione e nella verità della confessione.

Lo Spirito santo, compagno inseparabile

Lo Spirito che procede dal Padre è anche lo Spirito del Figlio, inviato da lui e suo compagno inseparabile. E dopo che Gesù lo ha inviato dalla sua gloria presso il Padre, è il compagno inseparabile di ogni cristiano.

Il lezionario della chiesa universale prevede per la solennità della Pentecoste il vangelo giovanneo che narra l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli la sera del primo giorno della settimana, quando egli soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito santo” (cf. Gv 20,19-23). Il lezionario della chiesa italiana prevede invece, a seconda dell’annata, altri due brani tratti dal quarto vangelo, che in verità sono costruzioni un po’ artificiali, in quanto costituiti da versetti appartenenti a contesti diversi. In questa annata B il testo è composto da due versetti in cui Gesù promette ai discepoli lo Spirito santo (cf. Gv 15,26-27) e da altri quattro nei quali egli specifica l’azione dello stesso Spirito nei giorni della chiesa (cf. Gv 16,12-15). Anche se non è un’operazione facile commentare versetti non consecutivi, tentiamo comunque di farlo, con spirito d’obbedienza.

Gesù è ancora a tavola con i suoi discepoli dopo la lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-20) e pronuncia parole di addio, perché è “venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13,1). Sono parole che la chiesa giovannea ha custodito, meditato, interpretato e finalmente messo per iscritto, con un linguaggio e uno stile diversi da quelli delle parole uscite dalla bocca di Gesù. Potremmo dire che il discepolo amato e la sua chiesa hanno fatto “risorgere” le parole di Gesù e qui nel vangelo le ritroviamo nella loro verità, ma pronunciate dal Risorto glorioso, il Kýrios.

Sappiamo dai vangeli sinottici che Gesù aveva parlato dello Spirito santo, disceso su di lui nel battesimo (cf. Mc 1,10 e par.), e lo aveva promesso come dono ai discepoli, in particolare per l’ora della persecuzione (cf. Mc 13,11 e par.), quando lo Spirito sarà la loro autentica difesa, “parlando in loro” e “insegnando loro ciò che occorre dire”. Ed ecco la stessa promessa nel vangelo secondo Giovanni (cf. Gv 14,26-27): quando verrà il Parákletos – il chiamato accanto come difensore, soccorritore e consolatore, lo Spirito santificatore che Gesù, salito al Padre, invierà –, allora lo Spirito darà testimonianza a Gesù, così come faranno i discepoli stessi, che sono stati con lui fin dal principio della sua missione.

L’alito di Dio, che Gesù soffierà sui discepoli dopo la sua resurrezione, la vita stessa di Dio che è la vita di Gesù, sarà vita nei discepoli e li abiliterà a essere suoi testimoni. Avverrà così una sinergia tra la testimonianza dello Spirito e quella del discepolo riguardo a Cristo: anche quando gli uomini sentiranno estranei i cristiani, anche nelle persecuzioni e nelle ostilità subite da parte del mondo, nella potenza dello Spirito i cristiani continueranno a rendere testimonianza a Gesù. Questa è la funzione decisiva dello Spirito santo che, come fu “compagno inseparabile di Gesù” (Basilio di Cesarea), dopo che Gesù lo ha inviato dalla sua gloria presso il Padre, è il compagno inseparabile di ogni cristiano.

Riguardo a questo soffio divino Gesù dice ancora qualche parola (cf. Gv 16,12-15). Egli è consapevole di aver narrato, spiegato (exeghésato: Gv 1,18) Dio ai discepoli per alcuni anni con il suo comportamento e le sue parole, soprattutto amando i suoi fino alla fine (cf. Gv 13,1), ma sa anche che avrebbe potuto dire molte cose in più. Gesù sa che c’è una progressiva iniziazione alla conoscenza di Dio, una crescita di questa stessa conoscenza, che non può essere data una volta per tutte. Il discepolo impara a conoscere il Signore ogni giorno della sua vita, “di inizio in inizio, per inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa). La vita del discepolo deve essere vissuta per una comprensione sempre più grande, e tutto ciò che una persona vive (incontri, realtà, ecc.), attraverso l’energia dello Spirito santo apre una via, approfondisce la conoscenza, rivela un senso. Ognuno di noi lo sperimenta: più andiamo avanti nella vita personale e nella risposta alla chiamata del Signore nella storia, più lo conosciamo! Il Vangelo è sempre lo stesso, “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8), non cambia, ma noi lo conosciamo meglio proprio vivendo la nostra storia e la storia del mondo.

Per questo Gesù confessa di non aver detto tutto: ha detto l’essenziale riguardo a Dio, quello che basta alla salvezza, ma la conoscenza è infinita. Ora Gesù è nel Regno con il Padre, ma lo Spirito santo che egli invia ai discepoli ricorda loro le sue parole (cf. Gv 14,26), le approfondisce, rende comprensibile ciò che essi non hanno compreso su di lui durante la sua vita (cf. Gv 2,22; 12,16). Nuovi eventi e realtà sono illuminati e compresi proprio grazie alla presenza dello Spirito santo. Ma si faccia attenzione:

a Cristo non succede lo Spirito santo,

all’età del Figlio non succede quella dello Spirito,

perché lo Spirito che procede dal Padre è anche lo Spirito del Figlio (questo significa l’affermazione: “Tutto quello che il Padre possiede è mio”), inviato da lui e suo compagno inseparabile. Dove c’è Cristo c’è lo Spirito e dove c’è lo Spirito c’è Cristo! E la parola di Dio è sempre la stessa: in Mosè, nei profeti e nei salmi (cf. Lc 24,44) c’è una stessa parola di Dio, uscita dalla sua bocca insieme al suo soffio.

Leggendo la Pentecoste alla luce di queste parole di Gesù del quarto vangelo, oggi confessiamo che l’alito, il soffio di vita di Dio è il soffio di Cristo, è lo Spirito santo ed è il nostro soffio di cristiani: un soffio che scende su di noi e in noi costantemente e che, soprattutto nell’eucaristia, ci rinnova, donandoci la remissione di tutti i nostri peccati.

Enzo Bianchi

L’annuncio del Vangelo a tutta la creazione

Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Il brano evangelico che la chiesa ci propone per la solennità dell’Ascensione del Signore è tratto dalla conclusione aggiunta più tardi al vangelo secondo Marco da parte di “scribi cristiani”, che lo hanno completato con una chiusura meno brusca di quella del racconto originale (cf. Mc 16,1-8). Sono versetti che non si trovano nei manoscritti più antichi e sono sconosciuti a molti padri della chiesa. Tuttavia la chiesa li ha accolti come contenenti la parola di Dio, tanto quanto il resto del vangelo, e infatti sono conformi alle Scritture (secundum Scripturas: 1Cor 15,3.4); sono addirittura una sintesi dei finali degli altri vangeli (soprattutto dei sinottici), che raccontano gli eventi riguardanti Gesù risorto, asceso al cielo e glorificato dal Padre.

Secondo questa conclusione, Gesù apparve al gruppo dei Dodici privi di Giuda, agli Undici dunque, mentre giacevano a tavola. Costoro che, chiamati da Gesù alla sua sequela, erano stati coinvolti nella sua vita e avevano appreso da lui un insegnamento autorevole per almeno tre anni, nell’alba pasquale avevano ascoltato da Maria di Magdala l’annuncio della resurrezione di Gesù (cf. Mc 16,9-10), ma a lei “non credettero” (epístesan: Mc 16,11); anche i due discepoli di Emmaus avevano raccontato come il Risorto si era manifestato sulla strada (cf. Mc 16,12-13), “ma non credettero (epísteusan) neppure a loro” (v. 13). Per questo, quando Gesù “alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, li rimproverò per la loro incredulità (apistía) e durezza di cuore (sklerokardía), perché non avevano creduto (epísteusan) a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,14).

Questa è la verità che va detta, ed è stata detta nella chiesa (prova ne sia questo testo) quando non erano ancora dominanti il trionfalismo e l’adulazione delle autorità. Gli Undici sono stati preda del dubbio profondo, sono stati increduli dopo la morte di Gesù come lo erano stati durante la sua sequela, quando egli era stato costretto a rivolgersi alla sua comunità dicendo: “Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non ascoltate?” (Mc 8,17-18). Situazione disperante quella dei futuri testimoni, assaliti dall’incredulità! Come potranno annunciare la buona notizia, se neppure loro credono? In questa chiusura – si faccia attenzione – dopo i rimproveri Gesù non mostra segni per portare i suoi discepoli a credere, come la trafittura delle mani e dei piedi (cf. Lc 24,39-40) o quella del costato (cf. Gv 20,20.27)…

Ma nonostante il persistere di questa poca fede, Gesù invia proprio loro in una missione senza confini, veramente universale; una missione cosmica, si potrebbe anche dire: “Andati in tutto il mondo, annunciate la buona notizia a tutta la creazione”. Dovunque vanno, in tutte le terre e in tutte le culture, i discepoli di Gesù devono annunciare la buona notizia che è il Vangelo di Gesù. Non ci sono più le barriere del popolo eletto di Israele, non ci sono più i confini della terra santa: davanti a quei poveri discepoli titubanti c’è tutta la creazione! Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede nel Dio unico e vero: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Quella che viene richiesta è un’opera di spogliazione ben più faticosa di quella dai semplici mezzi economici: si tratta, infatti, di abbandonare le certezze, gli appoggi intellettuali, gli assetti religiosi praticati fino a quel momento, e di immergersi in altre culture. Certo, per fare questo ci vuole fede nel Vangelo, nella sua “potenza divina” (dýnamis theoû: Rm 1,16), mentre occorre smettere di porre fede nella propria elaborazione o nei propri progetti culturali. Più spogli si va, più il Vangelo è annunciato con franchezza e, come seme non rivestito caduto a terra, germoglia subito e più facilmente. Quanti errori abbiamo commesso nell’evangelizzazione, confidando nei nostri mezzi, nelle nostre “ideologie”, e, in parallelo, disprezzando le culture degli altri, che sovente abbiamo mortificato e distrutto per imporre la nostra! E la sterilità del seme del Vangelo, soprattutto in Asia, dove esistevano culture che potevano concorrere con la nostra occidentale, è un segno evidente dell’errore fatto. Il Vangelo è caduto a terra come un seme ma, essendo un seme troppo rivestito, per causa nostra, non ha potuto marcire né, di conseguenza, germogliare.

Ecco il compito dei cristiani: senza febbre “proselitista”, senza cercare di guadagnare a ogni costo dei credenti, percorrendo i mari e le terre come i farisei (cf. Mt 23,15), dovunque si trovino i cristiani annuncino il Vangelo innanzitutto con la vita; poi, se Dio lo concede, con le parole. Sono parole di Francesco di Assisi, riprese da papa Francesco… Gesù non chiede di convincere né di imporre, ma di vivere il Vangelo con gioia, perché questa è la testimonianza. Oggi ci sono troppi leader cristiani che passano di palco in palco “per dare testimonianza”, finendo per raccontare la storia del loro movimento o della loro comunità. C’è solo da arrossire nel chiamare questo comportamento “testimonianza”; c’è da vergognarsi per una tale contraffazione del Vangelo! Meglio quei cristiani dubbiosi, magari come gli Undici, che tentano semplicemente e umilmente ogni giorno di essere cristiani dove si trovano, vivendo il Vangelo e amando Gesù Cristo al di sopra di tutto e di tutti. È di questi cristiani e cristiane che abbiamo bisogno, di discepoli e discepole, non di militanti!

Gesù, salito al cielo, non ci ha abbandonati, ma vivendo nella gloria di Dio ha lasciato noi poveri uomini e donne a dare al mondo segni che egli è risorto e vivente, che lavora insieme a noi e conferma la nostra povera parola con la Parola potente del Vangelo e con i segni del suo operare.

Enzo Bianchi

Il comandamento nuovo

Che cosa fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore, amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù.

Nei discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), attraverso i quali Giovanni ci svela le parole del Signore risorto alla sua comunità, per due volte viene annunciato il “comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12, all’interno del brano di questa domenica).

Sono parole certamente consegnate ai discepoli, ai discepoli di Gesù che in ogni tempo lo seguono, ma questo comandamento non è limitante, non è riduttivo delle parole sull’amore comandato da Gesù addirittura verso i nemici e i persecutori (cf. Mt 5,44; Lc 6,27-28.35). L’amore è sempre amore di chi dà la vita per i propri amici, è sempre amore che ha avuto la sua epifania sulla croce, dunque amore di Dio per il mondo, per tutta l’umanità (cf. Gv 3,16). Questo amore è innanzitutto ciò che Dio è, perché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16); è ciò che è vita del Padre e del Figlio nella comunione dello Spirito santo; è amore che Gesù di Nazaret ha vissuto fino alla fine, fino all’estremo (eis télos: Gv 13,1).

Per noi l’abisso di amore estatico che è Dio stesso, è incommensurabile, e riusciamo solo a leggerlo guardando alla vita e alla morte di Gesù, che avendo spiegato Dio (exeghésato: Gv 1,18), ci ha narrato il suo amore. Con tutta l’autorevolezza di chi ha vissuto l’amore fino all’estremo, Gesù ha potuto dire: “Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi”. Ancora una volta queste parole di Gesù ci dovrebbero scandalizzare, perché appaiono come una pretesa: Gesù pretende di aver amato i suoi discepoli come Dio sa amare e di questo amore di Dio dice di avere conoscenza, di averne fatto esperienza.

Come può un uomo dire questo? Eppure il Kýrios risorto lo afferma e lo dice a noi che lo ascoltiamo. In questi nove versetti per nove volte risuona la parola “amore/amare” e per tre volte la parola “amici”: questo amore discende da Dio Padre sul Figlio, dal Figlio sui discepoli suoi amici e dai discepoli sugli altri uomini e donne. È un amore che si incarna e si dilata per poter raggiungere tutti. È quasi impossibile seguire adeguatamente il discorso di Gesù; possiamo però almeno segnalare che in lui l’amore di Dio è diventato amore dei discepoli, i quali possono rispondere a questo amore discendente, donato a loro gratuitamente, dimorando in tale amore, ossia restando saldi nel realizzare la volontà di Gesù, ciò che lui ha comandato.

E questa volontà consiste, in estrema sintesi, nell’amare l’altro, ogni altro. Riusciamo a capire cosa Gesù ci chiede nel farci dono del suo amore? Non ci chiede innanzitutto che amiamo lui, che ricambiamo il suo amore, amandolo a nostra volta. No, la risposta al suo amore è l’amare gli altri come lui ci ha amati e li ha amati. La restituzione dell’amore, il contro-dono, che è la legge dell’amore umano, deve essere amore rivolto verso gli altri. Allora questo amore fraterno è compiere la volontà di Dio, dunque amarlo in modo vero, come Dio desidera essere amato. Gesù ha risposto all’amore del Padre amando noi, e noi rispondiamo all’amore di Gesù amando l’altro, gli altri. Per questo tutta la Legge, tutti i comandamenti sono ridotti a uno solo, l’ultimo e il definitivo, che relativizza tutti gli altri: l’amore del prossimo.

In questa pagina del quarto vangelo Gesù ha anche l’audacia di reinterpretare il rapporto tra Dio e il credente tracciato da tutte le Scritture prima di lui. Il credente è certamente un servo (termine che indica un rapporto di sottomissione e di obbedienza) del Signore, ma Gesù dice ai suoi che ormai non sono più servi, bensì sono da lui resi amici: “Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici (phíloi), perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Intimità più profonda di quell’amicizia di Abramo (cf. Gc 2,23) o di Mosè (cf. Es 33,11) con Dio; intimità che è comunione di vita, comunione di amore. Il discepolo di Gesù è stato da lui scelto, l’amore di Cristo lo ha preceduto e il frutto che Cristo attende è l’amore per gli altri. Questo sarà anche l’unico segno di riconoscimento del discepolo cristiano nel mondo (cf. Gv 13,35): null’altro, anzi il resto offusca l’identità del cristiano e non permette di vederla.

Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù. L’amore presente nel desiderio di Dio può essere una grande illusione, e Giovanni lo ribadisce con forza: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Stiamo attenti, soprattutto noi persone investite di un ruolo e di un’immagine ecclesiale: facilmente siamo bugiardi proprio nel confessare il nostro amore per Dio!

Enzo Bianchi

SUPPLICA ALLA MADONNA DEL ROSARIO DI POMPEI

L’otto Maggio come da tradizione la chiesa rivolge un particolare pensiero alla sua Mamma Celeste, per tale motivo alle ore 11,30 ci sarà in Parrocchia la recita del Santo Rosario e a seguire la Supplica alla Beata Vergine del Rosario.

“O Rosario benedetto di Maria, Catena dolce che ci rannodi a Dio, vincolo d’amore che ci unisci agli Angeli, torre di salvezza negli assalti dell’inferno, porto sicuro nel comune naufragio, noi non ti lasceremo mai più. Tu ci sarai conforto nell’ora di agonia, a te l’ultimo bacio della vita che si spegne.
E l’ultimo accento delle nostre labbra sarà il nome tuo soave, o Regina del Rosario di Pompei, o Madre nostra cara, o Rifugio dei peccatori, o Sovrana consolatrice dei mesti.
Sii ovunque benedetta, oggi e sempre, in terra ed in cielo” Amen

madonna buona

Gesù, vite vera

Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante!
Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero… I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore!

La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole – lo ripeto – del Risorto. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15). Proprio la vite era diventata l’immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4). Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato come vite vera (alethiné)” (Ger 2,21) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare tutto il suo popolo. Egli è la vite vera e Dio, chiamato con audacia “Padre”, è il vignaiolo, colui che la coltiva. I profeti nella loro predicazione si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi peccati e le sue sofferenze.

Gesù però è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta. Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa aumentare la linfa e così produrre non fogliame, non tralci vuoti, ma grappoli grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati nel fuoco…

Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite. È la parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)? Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro. Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita. Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante!

Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona.

Enzo Bianchi

il pastore santo, buono e bello

Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”. Sì, Gesù è il pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e guidati.

Nei brani evangelici che la chiesa (dopo quelli delle manifestazioni del Risorto) ci propone per il tempo pasquale, sempre tratti dal quarto vangelo, è il Gesù Cristo risorto che parla alla sua comunità, rivelando la sua identità più profonda, identità che viene da Dio suo Padre. Il Signore vivente per sempre è più che mai autorizzato a presentarsi con il Nome stesso di Dio: “Io sono” (Egó eimi). Quando Mosè aveva chiesto a Dio che gli parlava dal roveto ardente di rivelargli il suo Nome, Dio aveva risposto: “Io sono” (Es 3,14), Nome ineffabile, nome indicibile inscritto nel tetragramma JHWH.

Il Cristo vivente si rivela dunque come “Io sono”, e specifica: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite” (Gv 15,5). Nel nostro brano, dopo essersi presentato come la porta dell’ovile, Gesù dichiara per due volte: “Io sono il pastore buono e bello” (kalós), riassumendo in sé l’immagine di tutti i pastori donati da Dio al suo popolo (Mosè, David, i profeti), ma anche l’immagine di Dio stesso, invocato e lodato come “Pastore di Israele” (Sal 80,2), dei credenti in lui.

Gesù aveva evocato più volte l’immagine del pastore e del gregge da lui pascolato (cf. Mt 9,36; 10,6; 15,24, ecc.), ma ora con questa rivelazione parla di se stesso, si proclama Messia e Inviato da Dio per condurre l’umanità alla vita piena, “venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Il buon pastore è l’opposto del pastore mercenario, che fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli appartengono, non sono destinatarie del suo amore e non contano nulla per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le pecore a lui affidate!

Al contrario, l’amore del buon pastore per le sue pecore provoca addirittura il suo esporre, deporre la vita per la loro salvezza. Non solo egli spende la vita stando in mezzo alle pecore, guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. È questo il momento in cui il buon pastore si rivela. Questa solidarietà, questo amore sono però possibili solo se il pastore non solo non è un mercenario, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza particolare che lo porta a discernere e a riconoscere l’identità di ciascuna di esse: una conoscenza penetrativa che è generata dalla prossimità, dall’assidua custodia del gregge.

Gesù cerca di spiegare questa comunione reciproca evocando addirittura la conoscenza tra sé e il Padre, che lo ha inviato e del quale cerca di realizzare giorno dopo giorno la volontà: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Tale comunione è certamente quella vissuta da Gesù nei suoi giorni terreni, all’interno della sua comunità, con i suoi discepoli e le sue discepole; ma è anche una comunione che trascende i tempi, in quanto sarà vissuta nella storia tra il Risorto e quanti egli attirerà a sé, chiamandoli da altri ovili. Venuto per tutti, non solo per Israele, e volendo portare tutti alla pienezza della vita, Gesù è consumato dal desiderio che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore e che tutti i figli di Dio dispersi siano radunati (cf. Gv 11,52).

Dopo questa auto-rivelazione, ecco altre parole con cui Gesù esprime la sua intimità, la sua comunione con Dio: “Per questo il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita, per riceverla di nuovo”. Perché il Padre ama Gesù? Perché Gesù realizza la sua volontà, quella volontà che è amore fino al dono della vita. In Gesù c’è questo amore “fino all’estremo” (Gv 13,1), fino al dono della vita appunto, e c’è la fede di poterla riceverla di nuovo dal Padre. Si faccia qui attenzione e non si segua la traduzione italiana ufficiale della Bibbia, che compromette seriamente il senso delle parole di Gesù. Gesù non dice: “Il Padre mi ama perché offro la mia vita per riprenderla di nuovo” (sarebbe un giochetto!), ma “per riceverla di nuovo” (il verbo lambáno nel quarto vangelo significa sempre “ricevere” non “riprendere”). L’offrire la vita da parte di Gesù sta nello spazio della fede, non dell’assicurazione anticipata! Il comando del Padre è che lui spenda, offra la vita; e la promessa del Padre è che così potrà riceverla, perché “chi perde la sua vita la ritroverà, ma chi vuole salvarla la perderà” (cf. Mc 8,35 e par.; Gv 12,25). Nessuno prende la vita a Gesù, nessuno gliela ruba, e la sua morte non è né un destino (una necessità) né un caso (gli è andata male…): no, il suo è un dono fatto nella libertà e per amore, un dono di cui egli è stato consapevole lungo tutta la sua vita, dicendo ogni giorno il suo “sì” all’amore. Non ha dato la sua vita per ragioni religiose, sacre, teologiche, ma perché quando si ama si è capaci di dare per gli amati tutto se stessi, tutto ciò che si è.

Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo, un certo Abercio, si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”. Sì, Gesù è il pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e guidati.

Enzo Bianchi

Credere alla parola del Signore

Credere alla parola del Signore è molto più difficile che credere ai miracoli. Ciò che si vede solo con gli occhi del corpo, abbaglia; ciò che si vede con gli occhi della mente che crede, illumina.

Il vangelo di questa domenica racconta un altro evento, dopo la visita all’alba delle donne alla tomba vuota (cf. Lc 24,1-11), la corsa di Pietro al sepolcro (cf. Lc 24,12), la manifestazione del Risorto “come un forestiero” (Lc 24,18) ai due discepoli in cammino verso Emmaus (cf. Lc 24,13-35).

Sempre nel medesimo giorno, “il primo della settimana” (Lc 24,1), il giorno unico della resurrezione, ma alla sera, i due discepoli tornati a Gerusalemme sono nella camera alta (cf. Lc 22,12; Mc 14,15), a raccontare agli Undici e agli altri “come hanno riconosciuto Gesù nello spezzare il pane” (cf. Lc 24,25). Ed ecco che, improvvisamente, si accorgono che Gesù è in mezzo a loro e fa udire la sua parola: “Pace a voi!”. Non consegna loro parole di rimprovero per la loro fuga al momento del suo arresto, non redarguisce Pietro per il rinnegamento, non dice nulla sul fatto che essi non sono più Dodici, come li aveva chiamati e costituiti in comunità (cf. Lc 6,13; 9,1), ma solo Undici, perché il traditore se n’è andato. No, dice loro: “Shalom ‘aleikhem! Pace a voi!”, saluto abituale per i giudei, ma che quella sera risuona con una forza particolare: “La pace sia con voi! Non abbiate paura!”.

La resurrezione ha radicalmente trasformato Gesù, l’ha trasfigurato, perché egli ormai “è entrato nella sua gloria” (cf. Lc 24,26), e può solo essere riconosciuto dai discepoli attraverso un atto di fede. Quest’atto di fede è difficile, faticoso: gli Undici stentano a viverlo, a metterlo in pratica… Non a caso Luca annota che i discepoli “sconvolti e pieni di paura, credono di vedere uno spirito”. Allora Gesù li interroga: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Nel dire questo, mostra loro le mani e i piedi con i segni della crocifissione. Sì, il Risorto non è altro che colui che è stato crocifisso!

Eppure, nonostante queste parole e questo gesto, i discepoli non arrivano a credere, malgrado un’emozione gioiosa non giungono alla fede. È vero, noi umani approdiamo facilmente alla religione, ma difficilmente arriviamo alla fede; viviamo facilmente emozioni “sacre” o religiose, ma difficilmente aderiamo a Gesù Cristo e alla sua parola. Ma il Risorto ha grande pazienza, per questo offre alla sua comunità una seconda parola e un secondo gesto. Chiede loro se hanno qualcosa da mangiare, ed essi gli offrono del pesce arrostito, il cibo che abitualmente mangiavano insieme, quando vivevano l’avventura della vita comune in Galilea. Ricevutolo, Gesù lo mangia davanti a loro! Siamo persino stupiti di fronte a questi gesti di Gesù, ma stiamo attenti: sono solo “segni” per dire che la resurrezione di Gesù non è immortalità dell’anima e perdita totale del corpo, non è “la continuazione della sua causa” anche se egli è morto, non è una memoria che si conserva senza che colui che è morto sia vivente. Gesù dà ai discepoli questi segni, che in verità contengono verità indicibili, affinché credano che il Crocifisso ha vinto realmente la morte.

Ma i discepoli restano in silenzio: l’evangelista attesta che nemmeno da quei segni e da quelle parole di Gesù è scaturita la loro fede… Infatti Gesù, per renderli finalmente credenti, deve riprendere la sua predicazione, l’annuncio del Vangelo da lui fatto fino alla morte. Chiede di ricordare le parole dette mentre era con loro, perché quelle parole erano profezia e parola di Dio che si doveva avverare, così come doveva trovare compimento tutto ciò che era stato scritto su di lui, il Messia, nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Ed ecco che, mentre il Risorto ricorda e spiega la parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, opera il vero miracolo: “aprì loro la mente (diénoixen autôn tòn noûn) per comprendere le Scritture”. Il verbo qui utilizzato (dianoígo) nei vangeli ha sempre un senso terapeutico: designa l’apertura degli orecchi dei sordi e della bocca dei muti (cf. Mc 7,34), degli occhi ai ciechi (cf. Lc 24,31). Qui indica l’operazione compiuta nella potenza dello Spirito santo, l’apertura della mente alla comprensione delle Scritture. I discepoli, così “aperti”, possono ora ricevere il mandato per la loro testimonianza e la loro missione. Hanno capito che il cuore del Vangelo è la passione, morte e resurrezione del Signore, e che questo è il fondamento della fede cristiana, dal quale scaturisce l’annuncio del perdono dei peccati, della misericordia di Dio per tutte le genti della terra: non solo per il popolo di Israele, ma per tutti…

Con tanta fatica Gesù ha rifatto credenti quei discepoli che erano venuti meno durante la sua passione, li ha resi testimoni della sua morte e resurrezione, li ha resi capaci di comprendere cosa sia il perdono dei peccati che essi devono annunciare, in virtù del loro essere stati i primi a ricevere il perdono dal Risorto. C’è un detto di un padre del deserto che mi sembra commentare mirabilmente questa pagina evangelica: “Credere alla parola del Signore è molto più difficile che credere ai miracoli. Ciò che si vede solo con gli occhi del corpo, abbaglia; ciò che si vede con gli occhi della mente che crede, illumina”.

Enzo Bianchi

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